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Tra gli immigrati la mortalità infantile è il 60% più alta che nelle famiglie italiane

SanitàTra gli immigrati la mortalità infantile è il 60% più alta che nelle famiglie italiane

MONTESILVANO (Pescara) – La mortalità infantile nelle famiglie di immigrati è maggiore del 60% (con punte del 65% al sud Italia) rispetto alle famiglie di genitori italiani. Da questi numeri impressionanti, basati su dati Istat, ha preso le mosse la lettura magistrale del professor Mario De Curtis, ordinario di Pediatria all’Università La Sapienza di Roma, al congresso Simmesn in corso di svolgimento a Montesilvano. Nel suo intervento, dal titolo ‘Le disuguaglianze e la salute dei bambini migranti’, De Curtis ha ricordato che i minori con cittadinanza non italiana che vivono in Italia sono circa un milione, e rappresentano l’11,2% dei residenti tra 0 e 17 anni. Nell’anno scolastico 2020/2021, gli studenti con cittadinanza non italiana nelle scuole italiane erano 865.388, pari al 10,3% del totale degli studenti, e oltre il 75% dei minori con background migratorio è nato in Italia. Nel 2022 il numero dei bambini nati da entrambi i genitori stranieri è stato di 53.079, pari al 13,5% di tutti i nati. Considerando anche i nati da un solo genitore straniero (29.137), il totale arriva al 21% di tutti i nati. Numeri rilevanti, che consentono al docente di spiegare che “l’immigrazione fornisce un importante sostegno demografico all’Italia, con effetti sia a breve sia a lungo termine”. Tuttavia, “questi bambini, a causa delle particolari condizioni familiari ed economiche, sono spesso esposti a un rischio maggiore di malattia sia in epoca prenatale che immediatamente postnatale”.

congresso simmesn

La mortalità infantile, continua De Curtis, è stata nel 2020 del 2,51 per mille, risultando superiore del 60% nei figli di genitori stranieri rispetto a quelli di genitori italiani (dati Istat 2024). E i bambini stranieri residenti nel Mezzogiorno, rispetto a quelli residenti nel nord Italia, hanno mostrato nel 2020 un rischio di mortalità infantile maggiore del 65%. “L’aumento del rischio di mortalità e di patologie in questi bambini- evidenzia il professore- è riconducibile a condizioni perinatali legate alle donne immigrate: svantaggio sociale, economico e culturale; maggior numero di gestanti minorenni e ragazze madri; basso reddito familiare; attività lavorative meno garantite e più pesanti; alimentazione inadeguata; condizioni igieniche e abitative carenti; cure ostetriche e pediatriche tardive o inadeguate”. Restano quindi “problematiche di integrazione legate a difficoltà linguistiche, alla mancanza di informazioni sui servizi disponibili e al timore verso le autorità locali”, conferma il professore. In questo quadro, quindi, “una parte significativa delle patologie pre e postnatali potrebbe essere prevenuta con una più adeguata organizzazione dell’assistenza materno-infantile”.

Un’attenzione particolare, considera De Curtis, “dovrebbe essere rivolta al miglioramento delle condizioni socioeconomiche, poiché molti bambini provenienti da famiglie immigrate affrontano difficoltà economiche e sociali. Sostenere queste famiglie è quindi cruciale per garantire il benessere dei bambini. Una società equa e solidale non può permettersi di trascurare questi bambini, molti dei quali vivono in condizioni di fragilità. È necessario- conclude quindi il professore- un impegno concreto e tangibile da parte delle istituzioni per garantire che nessun bambino venga lasciato indietro”.

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